Accessibilità

Che ruolo e potenzialità può avere l’accessibilità nei processi di trasformazione culturale?
Questa domanda è un invito rivolto a chi abita le organizzazioni culturali a re-immaginare l’accessibilità come trasformazione sistemica, come processo e non come risultato, e in quanto tale, come insieme di saperi e pratiche continuamente ridiscussi. Studi recenti individuano nella mancanza di conoscenze e competenze da parte delle istituzioni culturali in materia di accessibilità una delle principali barriere che limitano la partecipazione delle persone con disabilità alla vita e alla produzione culturale (Time To Act, 2021). Avviamo questo dibattito con l’obiettivo di alimentare la consapevolezza rispetto a questi temi e per offrire considerazioni valide in senso più ampio, rispetto alle modalità con cui l’arte è prodotta, esperita e comunicata oggi.
L’emergenza pandemica ha reso evidenti la precarietà e l’ineguaglianza dei sistemi di produzione artistica e accelerato processi di trasformazione già in atto. Disabilitando il quotidiano, abbiamo potuto interpellare tipi di mondo altri. Questo spazio di interrogazione vuole rintracciare possibilità di cambiamento, attraverso la condivisione di riflessioni e buone pratiche maturate da ricercatrici e ricercatori, artiste e artisti, operatrici e operatori e attiviste e attivisti che incarnano la sfida dell’accessibilità secondo ambiti e prospettive proprie. In questo tentativo di dialogo, non c’è pretesa di completezza. Al contrario, desideriamo partire da chi non si troverà rappresentata e rappresentato in questa sezione. È pensando a chi è assente dai discorsi e dalle pratiche che plasmano la produzione del sapere, che ci muoviamo con cautela nelle geografie possibili dell’accessibilità.
Abilismo e accessibilità: cosa sono?
L’abilismo è un’interpretazione esclusivista della realtà che si basa sulla presunta non-esistenza o inferiorità di corpi e menti non conformi. La prospettiva abilista svaluta modelli di vita alternativi a quelli abili contemporanei, che premiano la performatività, l’individualismo, l’iper-mobilità, e la standardizzazione delle relazioni. In quanto caratteristica inerente alla costruzione sociale, ci riguarda tutte e tutti. Riconoscere il proprio abilismo, a prescindere che si abbia o meno un corpo-mente con disabilità, è un processo lento, a volte doloroso, non lineare, ricco di opportunità, conflitti e contraddizioni, che ambisce a una più equa redistribuzione del potere di accesso al mondo.
Il termine “accesso” indica il diritto o la possibilità di avvicinarsi, entrare e muoversi liberamente in un luogo fisico, un ambiente, una posizione, un’esperienza. Come termine è stato utilizzato storicamente per indicare il rapporto tra un corpo disabilitato e lo spazio. Inizialmente associato alla rimozione di barriere architettoniche, oggi ha un significato più esteso: è riferito agli spazi virtuali, alle tecnologie, alla comunicazione, e più in generale, alla piena partecipazione alla vita sociale, politica, economica, e culturale. L’accessibilità come percorso ha avuto risultati contraddittori. Abbiamo assistito a un parziale adeguamento di musei, siti archeologici, gallerie d’arte, festival e teatri. Sono state implementate tecnologie che favoriscono vari tipi di accesso, eppure questa aumentata accessibilità fisica e tecnologica non si è automaticamente tradotta in una maggiore equità dei sistemi artistici e culturali. Successi isolati non hanno determinato un’apertura reale, ad esempio, della formazione e professionalizzazione delle artiste e degli artisti a identità non conformi. Né è stato adottato un approccio intersezionale, che tenga conto delle discriminazioni multiple e delle reciproche influenze tra barriere fisiche, geografiche, demografiche, economiche, culturali e sociali.
Una riflessione sui significati e sui terreni di pertinenza dell’accessibilità, in questo senso, traccia un campo di ricerca che abbraccia le istanze e le potenzialità della comunità disabile per porre domande più ampie sui diritti, sulle opportunità, e sulle disuguaglianze come elemento endemico al sistema cultura. Negli ultimi anni abbiamo assistito a una conversione digitale di massa, che ha coinvolto tanto i prodotti quanto i soggetti culturali e le loro relazioni, ma quanti sforzi sono stati fatti nella comunicazione accessibile? Allargando le nostre considerazioni, quanto realmente accessibile è il linguaggio con cui l’arte viene raccontata?
Cosa vuol dire prendere responsabilità dell’accessibilità?
Nel mondo abilista in cui siamo immersi, alla persona con un corpo e/o una mente non conforme viene richiesto di farsi carico della propria emarginazione, di normalizzare il proprio corpo per adattarsi a un mondo progettato da e per altri. Adottare un approccio accessibile, vuol dire assegnare la responsabilità dell’accesso alla società, muoversi verso una re-immaginazione e riorganizzazione radicale della cultura come sistema di produzione. Le istituzioni culturali italiane ed europee stanno gradualmente adottando strategie e tecnologie di accesso, con un’attenzione rivolta tanto ai pubblici quanto alla partecipazione di artiste e artisti con disabilità, ma è abbastanza? Che responsabilità ha il sistema di produzione dell’arte nel favorire spazi di autonomia e leadership per artiste e artisti con disabilità? Qual è il ruolo dell’artista, con o senza disabilità, nel rendere le proprie opere e processi artistici accessibili? Questo è un tema conflittuale, perché si muove sul confine tra la libertà espressiva dell’artista e un’opportunità di ricerca originata da una domanda fondamentale: chi non potrà fare esperienza della mia opera?
Partire dagli assenti, mette in moto un processo virtuoso e partecipato di indagine su modalità non normative di produzione e fruizione dell’arte. Significa muoversi nei territori liquidi dello spazio-tempo crip, concetto postulato dai critical disability studies per indicare le plurime modalità soggettive con cui le persone con disabilità, sorde e con malattie croniche abitano, concepiscono e organizzano lo spazio e il tempo. In una cultura della post disabilità, indagare lo spazio-tempo crip vuol dire infiltrare l’iperproduzione frenetica delle industrie culturali con il ritmo lento e imprevedibile della vita, della caduta e della prova, e interrogarsi su questioni di sostenibilità della produzione.
Prendere responsabilità di una distribuzione più equa del potere di accesso ci porta a mettere al centro del fare artistico l’impatto che un’opera e/o un processo di creazione può avere nella vita intima, negli immaginari, e nella gestione delle relazioni sociali di chi vi o non vi partecipa. È questo un interesse della sola artista o del solo artista o pubblico con disabilità, o l’accessibilità può essere collettivamente scelta come pratica della comprensibilità, dove per com-prendere si intende l’atto dell’apprendere insieme, piuttosto che includere o integrare identità immaginate come extra-ordinarie?
Quali sono le potenzialità artistiche dell’accessibilità? Realizzare opere d’arte accessibili, che siano tali sin dal momento della progettazione oppure successivamente tradotte in formati accessibili, ha un valore sociale, in quanto consente a pubblici sistematicamente ignorati di godere del patrimonio culturale. Ma può avere – oserei dire innanzitutto – un valore estetico ed artistico. Le opere accessibili, che siano tangibili o immateriali, non sono solo opere “per”, ma opportunità di sperimentazione co-autoriale, multisensoriale e transmediale, che allarga e ridefinisce la relazione tra corpi, risorse, linguaggi, prodotti artistici e i suoi pubblici.
Da dove partire per una trasformazione?
Lo strumento centrale per attivare una trasformazione culturale concreta è partire dall’interno delle organizzazioni interrogando il proprio privilegio, spesso invisibile a chi ne beneficia. Possedere privilegi non è una prerogativa di una sola categoria, ma il risultato delle interconnessioni tra condizioni materiali, barriere visibili e invisibili, e stereotipi legati al genere, all’abilità, allo status socio-economico, all’appartenenza geografica, all’etnia, all’età, all’orientamento sessuale. Si può essere donna e possedere il privilegio di essere bianca tra bianchi. Si può avere una disabilità e godere dei benefici derivanti da un’istruzione superiore. Occuparsi di accessibilità significa dunque porre i corpi in relazione ad uno specifico contesto, alla sua storia e alle dinamiche sociali che lo costituiscono.
In termini concreti, il proprio privilegio può essere mobilitato per creare cambiamenti. Ad esempio, osservare da chi è composto il proprio gruppo di lavoro, può portare alla scelta di diversificare le voci ed esperienze al suo interno. Si può partire domandandosi: chi partecipa alle decisioni e in quale misura? Quanto potere sono disposte e diposti a cedere? Gli spazi, i tempi e i processi di produzione sono accessibili? Per chi? Per trovare risposta a queste domande, sarà necessario intercettare le identità assenti, interrogarle e riconoscere il loro contributo come co-produttrici di nuova realtà.
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