14 Dicembre 2022

Cura

Articolo scritto da

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Come può la cura essere una forma di rimedio al corpo collettivo?

C’è un doppio binario alla radice della parola cura, una sovrapposizione strabica e una piccola crepa da cui gemma una personale e non scientifica visione di questo concetto che provo a tradurre nella mia pratica curatoriale e professionale.

Un etimo, infatti, connette l’origine della parola cura alla parola cuore, alla sua capacità di scaldare e consumare e in riferimento al ritmo martellante del battere; un’altra interpretazione resta invece nella semantica razionale e la lega all’atto del vedere, dell’osservare e del considerare.

Questa doppia declinazione schiude aspetti stratificabili in una concezione terza della cura che fonde, senza derive sentimentali e strumentalizzanti, l’atto del vedere e avere considerazione per qualcuno e qualcosa (evidente nell’inglese care) e la pratica continua e reiterata di ingaggiarsi concretamente ( ed emotivamente) in un atto di manutenzione delle relazioni che sono al cuore del vivente: una sfumatura che rivendica da un lato la centralità del sentire e del  corpo e dall’altro una  temporalità dilatata, in uno sforzo durevole nel tempo. Una traiettoria che si oppone alla lettura medicalizzata occidentale della cura come soluzione alla disfunzionalità e alla malattia.

 Ma non tutto può essere risolto, non ogni ferita può essere sanata, il falso mito dell’integrità marmorea e dell’armonia liscia può oggi lasciare il passo alle cicatrici dorate del kinstugi e alla vulnerabilità come baricentro capace di insegnarci ad abbracciare buchi e lacune, rughe e grinze come parti del nostro corpo, individuale e collettivo.
Il nostro presente è un fiordo frastagliato di conflitti, insenature di mancanze, un terreno scosceso in cui ci sono troppe asimmetrie nel sogno di equità strutturale: cura è apprendere attraverso la micro-politica del corpo nuove posture, laterali flessibili, aperte e morbide, capaci di maneggiare questa complessità per tracciare nuovi scenari e orizzonti. 

Del resto, come per la sindrome dell’arto fantasma, la cura del trauma è la capacità di vedere l’invisibilizzato e quindi al livello di macro-politica del corpo sociale, cura significa anche dare spazio e far emergere voci troppo a lungo silenziate dalla dissezione chirurgica della complessità, ridotta a bolo predigerito, dal paradigma suprematista dominante. 

In questo atlante del corpo collettivo, la domanda che mi guida in questa riflessione e nelle progettualità che accompagno  è come creare spazi e  luoghi di cura radicale, terreni di azione per  pratiche artistiche che, investendo la sfera del corpo e dell’immaginazione, trasformano la percezione del sé e dell’altro, facendo slittare la cura su un piano non privato ma collettivo verso un paradigma relazionale che offra ri-medi ad una crisi sociale economica e ambientale.

Ri-mediare o ri-marginare?

Come rimediare e rimarginare le ferite che viviamo partendo dalla ridefinizione della nozione di bordo, confine e centro? Come può creare  relazioni nuove e in continua metamorfosi rigenerando mondi? Partendo da queste domande, attraverso una stratificazione di letture e riferimenti teorici, metto  a fuoco la cura come insieme di visioni e pratiche capaci di generare relazioni e incontri inattesi che ridefiniscono le asimmetrie che sconquassano un presente “danneggiato” (Haraway 2016).

In questa declinazione, riferendomi ad un impianto teorico che richiama il pensiero femminista e dalle scienze sociali con particolare riferimento al pensiero di Haraway, Marìa Puig del la Bellacasa e Nancy Fraser, la cura non è solo premura o sentimento di affezione spontaneo, atto di mantenimento e manutenzione confinato alla sfera privata spesso appaltata all’immagine femminile: contro una visione unidirezionale, edulcorata e idealizzata della cura, in questa accezione si problematizza questa parola in senso etico-politico come un’ecologia di pensieri e pratiche che nutrono, proteggono e rimettono al centro la relazione con l’altro, gli altri e le alterità: la relazione con ciò che è altro perturbante e diverso, con le molteplici sfumature che abitano le nostre stesse identità e corpi nonostante i tentativi della normalizzazioni, e con ciò che è non umano.

In questa direzione, la cura è di per sé un’epistemologia (Puig de la Bellacasa, una politica e un’estetica dell’esistenza (Focault 2017).*

*(Balazano, Bosisio, Santoemma, Conchiglie Pinguini e Staminali: Verso futuri transpecie, Derive&Approdi, 2022)

Dove finiscono le nostre radici?

In questa direzione, la cura  rende evidente l’inevitabile geografia di relazioni che abitiamo e che ci abitano, ci formano enfatizzando le connessioni, collaborazioni, gli interstizi e i rizomi. 

Contro il rampantismo che a lungo ha mitizzato autosufficienza dell’individuo come cellula monadica bastante a sé, da cui deriva una specifica visione muscolare di leadership e potere che stigmatizza vulnerabilità e reciprocità,  la cura è gioiosa legittimazione del   nostro essere moltitudine. Siamo interdipendenti e intessuti in una continuità indistinta evocata in modo organico e generoso dall’immagine del Comphost un impastarsi in cui l’io supera la gelosia della propria forma e accoglie e si fa accogliere in un assemblaggio mutaforme, in cui lo scarto nutre e rinnova (Ferrante 2022).

In un costante lavoro di tessitura e moltiplicazione, la cura come visione opera una diffrazione nel modo in cui solitamente vediamo le cose, un ribaltamento che sfida le logiche di potere (Puig de la Bellacasa).

Ai dispositivi ottici attuali promossi da un sistema di controllo che definisce in modo univoco e con logiche binarie corpi e identità, alle polarizzazioni semplificatrici che creano sacche di esclusione, questo pensiero oppone una grammatica connettiva e moltiplicatrice che a o/o preferisce un e/e: una moltiplicazione che sfuma confini netti tra io/l’altro, umano e non umano. Un pensiero che, ampliando la focale del narcisismo riflessivo di chi vede solo ciò che ri-conosce con piglio confermativo e coloniale, dilata pupille e orizzonti con una diffrazione che accoglie differenze e le tiene insieme con unioni perturbanti, un effetto caleidoscopico che svela la pluralità di prospettive spesso confinate in una lateralità messa in ombra.

Produzione o rigenerazione?

 E qui che la cura è anche una pratica politica puntuale che seguendo una visione di sistema, ricalibra simmetrie e poteri e alimenta quella riproduzione sociale, definita da Fraser come la rete di affetti relazioni e meccanismi di reciprocità alla base del corpo sociale, che è sempre più messa in discussione dal paradigma neoliberista competitivo, individualista e precarizzante. 

All’accelerazione iper-produttiva e alla  precarizzazione che comprimono tempi liberi e atrofizzano il muscolo relazionale affettivo e sociale, contro l’anaforica ossessione per l’obbligo a produrre valore, la cura oppone valori, la riproduzione di legami e il tempo lento del piacere, rigenerando un corpo collettivo, abitato da valori di equità e giustizia.  Cura non è solo manutenzione e balsamo lenitivo ma azione trasformativa che ci permette di creare spazi terzi, altri interstiziali in cui ripensare le asimmetrie e le logiche di sfruttamento e così facendo ri-media le forme del vivere immaginando possibili altrimenti e altrove.

Istituire un altrove?

In questo atto di immaginazione, le pratiche artistiche e il performativo (Caleo 2018) hanno un ruolo fondativo.
Come sostiene Bojana Kunst, l’istituzione non è un’organizzazione consolidata ma una funzione, un verbo che l’organizzazione incarna e continua a rinnovare nel suo esistere. A cavallo tra come se e ciò che non è ancora, l’istituzione rinnova la propria immaginazione in una continua nebulosa da cui lascia emergere possibili alternative al sistema presente. Come possiamo quindi far convergere cura, immaginazione e istituzione? Come trovare nella cura una guida drammaturgica al nostro discorso e al nostro fare? Partendo da queste domande e dallo spazio concreto offerto dal mandato in Lavanderia a Vapore, si apre un orizzonte del possibile in cui non sigillare formule ma provare a sperimentare alcune risposte temporanee.

La co-curatela di contesti con artisti e molteplici alleati, il formato delle residenze collettive e di ricerca che dilatano lo spazio-tempo della ricerca aldilà della produzione, la sperimentazione di modalità collaborative e corali che disinneschino competizione e logiche di consumo dell’opera: sono queste le modalità attraverso le quali  proveremo, come istituzione, a praticare  la cura, imparando, nel fare, attitudini e posture necessarie. Correndo il rischio di non vedere e facendoci largo in una nebulosa, nell’albeggiare di un prossimo futuro abitato dalla domanda “come possiamo vivere insieme?”

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