2 Ottobre 2023

Cosmologie e cicatrici

Articolo scritto da

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Hangar Piemonte

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Per la liberazione di ogni visione del mondo ferita dal colonialismo

Le mie ricerche etnografiche in Mato Grosso (Brasile) con Xavante e Bororo mi hanno portato a una conclusione fondamentale. Ogni cultura “nativa” ha le sue proprie cosmologie in connessione con specifiche filosofie. Nel processo di mutamento culturale che sta attraversando ogni angolo dell’umanità, vanno difese tali visioni del mondo e del sacro in quanto differenti da quelle “occidentali”. Le influenze pressanti di missionari cattolici e ancor più evangelici, le invasioni di fazendeiros, madareiros, garimpeiros assieme a politici senza scrupoli e tecnologie digitali rendono il contesto indigeno particolarmente fragile. Per affermare l’autonomia di ogni cosmologia, l’antropologia cerca una soluzione basata su una dichiarazione di libertà (certamente della mia libertà) che è parziale se violata sistematicamente nelle aldeias (Canevacci, 2023).

A tal fine, penso sia importante presentare alcune delle ricerche più significative che hanno esplorato tale processo. In primo luogo Gregory Bateson, che è stato un antropologo – per così dire – “neo-animista” e “neo-feticista”. E, ancor di più, con la sua ecologia della mente è stato uno sperimentatore sincretico per la liberazione di cosmologie altre. Infatti, proprio il filo comunicativo dell’ecologia mentale costituisce una radicale affermazione degli intrecci avviluppanti soggetti di natura diversa, quali anemoni di mare, foreste di sequoie e umani. Questa espansione della mente fuori dei confini della pelle dilata una ecologia sincretica. Un sincretismo cosmologico vivente anche quando sembra coinvolgersi nell’inorganico.

Secondo Clifford, Bateson è un punto di riferimento a partire dal suo primo lavoro Naven: “The cuts and sutures of the research process are left visible ; there is no smoothing over or blending of the work’s raw data into a homogeneous representation. To write ethnographies on the model of collage would be to avoid the portrayal of cultures as organic wholes or as unified, realistic worlds subject to a continuous explanatory discourse” (Clifford, 1988 :146).

Mentre Malinowski – padre della ricerca sul campo – stronca Naven, questa ricerca diventa per Clifford un testo anticipatore: “an early and, in the genre, unclassifiable example of what I am suggesting here” (147). Naven è la trascrizione di un rituale di inversione sessuale tra gli Iatmul della Nuova Guinea, di cui Bateson avverte già negli anni ’30 l’enorme difficoltà di trascrivere in un testo per la sua complessità. Da qui il rifiuto delle semplificazione funzionaliste e gli sviluppi di un sistema scritturale ad anelli concentrici, ciascuno dei quali ritorna con punti di vista diversi nello stesso fuoco della ricerca. Questa ricerca diventa un esempio di scelta culturale schierata contro quelle metodologie universalistiche e strutturalmente ordinanti che riportano ricerca e scrittura all’interno di un quadro fisso unitario.

Il senso del metodo si frammenta e pluralizza nei modi in cui sono assemblate le sue parti. Il metodo è la liberazione: ovvero è l’autonoma di ogni cosmologia indigena in senso esteso. In Bateson, le suture del metodo non annullano le cicatrici della ricerca, ma costruiscono percorsi semiotici corrugati; è il modo di cucire tessuti-patchwork tra loro disomogenei che apre i concetti sensoriali per una composizione multivocale.

Montare insieme testi (scritture, metaloghi, fotografie) che affrontano con differenti linguaggi narrativi lo stesso soggetto: questo multi-prospettivismo connette Bateson alle avanguardie della sua epoca e alle sperimentazioni contemporanee. L’inquietudine metodologica di Gregory si sposta costantemente nell’impossibilità di trovare “il” metodo attraverso cui rappresentare la ricerca empirica. Da qui la sua attrazione per il poetico, le arti performatiche, il sacro, cioè per esplorazioni linguistiche che non si esauriscano nell’estrarre “cristalli puri di significato”, ma che costantemente ritornino su una composizione mobile per moltiplicare le narrazioni possibili. Bateson scopre che non sarà mai possibile replicare oggettivamente un fatto sociale o un’esperienza vissuta come il malessere di uno schizofrenico preso da doppi vincoli. Il problema è che un libro o una foto non saranno mai “la cosa”, ma solo una parziale rappresentazione. E che “la cosa” (un rituale di inversione sessuale, una trance balinese, la morte di un amico) ha molteplici sfaccettature di senso e di livelli logici che non sarà mai circoscrivibile (nè rappresentabile) con un linguaggio unitario o sintetico.

Per questo la rappresentazione etnografica dovrà farsi incomprensibile: ovvero spezzare il cerchio identitario della logica formale occidentale che si basa sul comprendere: un prendere-con, un circondare e rinchiudere la “cosa” attraverso il potere del concetto. La rappresentazione è incomprensibile perché apre il cerchio fisso del concetto basato sulla sola logica dell’identità, si fa incontenibile e, in quanto tale, ricerca una evocativa affinità (mai coincidente) col suo soggetto di ricerca.

Il suo caratteristico neo-animismo ha l’origine in questo passaggio. Non esiste “oggetto” etnografico – così come non esiste una “oggettività” nella ricerca – proprio in quanto per Bateson ogni apparente “oggetto” è in realtà animato, ha al suo interno uno spirito-che-muove e lo trasforma in soggetto. Il senso profondo delle sue visioni neo-animiste e neo-feticiste si collocano in questo orizzonte comunicativo. L’ecologia della mente significa non solo una estensione fuori dei confini dell’io, ma riconoscere l’io anche alle “cose”. O meglio : non ci sono sostanziali confini comunicativi (o ecologico-mentali) dell’io tra la pelle di un essere umano, le squame di una lucertola, lo strato levigato di una roccia, la scorza rugosa di un albero.

Questi apparenti limiti esterni – pelli-squame-scorze-strati – sono canali dove viaggia l’informazione e le connessioni antropologiche. Lì si colloca la mente, nei punti più sensibili attraverso cui l’interno si connette con l’esterno. Pelle-squame-scorza-strato non sono più confini che chiudono a doppio mandata un determinato essere, bensì interzone sconfinate, zone di passaggio, trame della comunicazione, moltiplicazioni del sé e delle proprie percezioni. L’antropologia di Bateson è un’antropologia del sentire. Nella sua trama-che-connette vi è il sacro: non perché vincola come la religione (con istituzioni, canoni, precetti, dogmi, gerarchie, liturgie) ma, al contrario, perché il sacro svincola, spezza le trappole comunicative del doppio vincolo, metamorfizza ogni essere transitivo.

Il sacro è un principio anti-metafisico. Riconoscere la pervasività animista e feticista dei molti io (gli “ii” o eus) non è patrimonio cartesiano, zen o francescano, in quanto essa fluttua lungo il mutamento di un diverso sentire, vedere, comunicare. L’io – ogni eus di ogni entità – è dilatato, molteplice, sconfinato, svincolato, incontenibile.

Sentirsi io, quindi, non significa annettere queste visioni dentro tradizionali misticismi, ambientalismi museali, animalismi d’assalto, protezionismi immobili, anti-scientismi vari, ma esattamente il contrario: il sentire dell’io, l’io-sentire, il farsi dell’io-che-sente è una prospettiva che accentua e sviluppa le infinite possibilità percettive del soggetto. In questo senso non la conservazione, ma la alterazione persegue e rende incomprensibili e svincolate le trame di Bateson.

La sperimentazione altera linguaggi e trame narrative, altera i confini tra corpi, pelli, carni, squame, strati. Per questo, il montaggio come metodo afferma il mettere insieme i dati, contiene il meta-messaggio iniziale e finale di Bateson, il terreno della sperimentazione non può rimanere fuori dal mutamento culturale e comunicazionale. Bateson vive in quanto si altera. E le alterazioni performative, linguistiche, narrative spaziano tra la critica dei dualismi : in primo luogo – tema costante di tutta la sua ecologia neo-animista e neo-feticista – la dissoluzione del confine tra organico e inorganico e, di conseguenza, tra natura e cultura, mente e corpo. La sua dimensione sperimentale si anima sul concetto di differenza, concetto attraversante diversi approcci che tessono trame verso soluzioni altre – alterate – rispetto a quelle dominanti. Anziché affermare posizioni universalistiche, il suo pensiero esplora i territori della differenza. Spesso le sue premesse teoriche partono dalla riflessione sul rapporto tra mappa e territorio. “Noi sappiamo che il territorio non si trasferisce sulla mappa. Ora se il territorio fosse uniforme, nulla verrebbe riportato sulla mappa se non i suoi confini, che sono i punti ove la sua uniformità cessa. Ciò che si trasferisce sulla mappa, di fatto, è la differenza” (1976 :465).

La differenza è quel tipo di ‘cosa’ che viene trasferito dal territorio alla mappa.

Cartografare l’esperienza è un’istanza che ha coinvolto autori innovativi. Qualsiasi testo che descrive e/o interpreta un tratto culturale determinato non potrà mai coincidere con esso, sarà sempre un’approssimativa rappresentazione costruita attraverso codici condivisi che segnalano differenze. Una carta geografica 1:1 (in cui la mappa coincide col territorio) è inutile. Non dà alcuna informazione perché non ci sono differenze. Il suo risultato caratterizza un io – etnografo o psicoanalista – che mira a coincidere con l’oggetto della propria ricerca, assorbendolo dentro l’onnipotente dilatazione del proprio io. Questo non è un io sconfinato, ma un io onnipotente che cerca di assorbire l’altro annullandolo e divorandolo. E’ la negazione dell’alterità.

Nella volontà di “comprendere” l’oggetto attraverso la sua duplicazione o il soggetto attraverso il suo assorbimento vi è la storia gnoseologica dell’Occidente basata sul principio d’identità, delirio di onnipotenza della ratio occidentale. Nella coincidenza mappa-territorio vi è l’angoscia di dio come metafisica. Qualsiasi trascrizione di un oggetto è una sua trasfigurazione simbolica. L’oggetto non sarà mai rappresentabile dall’oggetto stesso o da una sua copia (una mappa uguale al territorio è appunto inutile), bensì da un passaggio di livello logico.

La scrittura non copia l’oggetto: libera il passaggio transitivo della sperimentazione. Il passaggio è transitivo perché coinvolge e trasforma non solo l’oggetto-soggetto esterno della ricerca, ma anche il soggetto interno del ricercatore: transita dall’uno all’altro. Si attiva una dialogica-in-transito e transitiva.

L’interpretazione non si adegua all’oggetto: l’invera.

Il processo di inveramento si verifica quando la rappresentazione è polifonica, diasporica, sincretica, multi-vocale, pluri-sensoriale. L’interpretazione che invera è una trasfigurazione: le figure transitano e mutano di codice dal testo-rito al testo-scrittura o testo-visuale, viaggiano verso una classe di concetti alterati. Il passaggio dal territorio alla mappa è questo fluire della trasfigurazione. E’ un transitare che va decisamente contro le trascrizioni realistiche della vita riprodotta in modo unitario. La discontinuità paradigmatica transita tra stili narrativi e compositivi diversi. Alla fine un viaggiatore (o un lettore) non dovrà tanto riconoscersi nel territorio su cui si sta muovendo grazie alla possibilità di scrutare la mappa, quanto smarrirsi in esso come lo vedesse per la prima volta. Tale godimento della differenza è un elemento concettuale che si oppone alla contraddizione dialettica. La contraddizione è storicista, universalista, dualista; la differenza è diasporica, alterata, sincretica.

Nello scrivere questo articolo ho avuto la chiarezza cosmlogica dei limiti di quella dimensione che chiamo – che vivo o vorrei vivere – libertà. Per tale motivo, ogni pratica di liberazione per questa gente lontana eppure visinissima coinvolge la mia pratica liberatrice. È di questi giorni (giugno 2023) la notizia che le loro terre saranno sempre meno demarcate per l’attacco del parlamento brasiliano a maggioranza bolsonarista con la legge 490 (Marco Temporal): così si vorrebbe trovare il modo “illegale” per invadere le cosiddette riserve indigene nel Mato Grosso o in Amazonia. Per questo i loro simboli rigenerati, tradizionali e mutanti, mi sono vicinissimi e possono offrire a chiunque sappia ascoltare un chiarimento vitale sulla libertà. Sono questi poco numerosi esseri umani che possono “liberare” la mia – e spero anche la nostra – incompiuta libertà: rigenerando ritualmente e quotidianamente le loro cosmologie.

Bibliografia

Bateson, G., Steps to an ecology of mind, New York, Ballantine, 1972.

Bateson, G. Naven. A Survey of the Problems Suggested by a Compositive Picture of the Culture of a New Guinea Tribe Drawn from Three Points of Views, Stanford University Press, 1936

Canevacci, M., Stupore indigeno, Napoli, Mar dei Sargassi, 2023

Clifford J., The Predicament of Culture, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1988

Massimo Canevacci

Docente di Antropologia Culturale  presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Come Visiting  Professor è stato invitato in diverse università  europee, a Tokyo (Giappone), a Nanjing (China). Dal 2010 al 2017, è stato Professor Visitante in Brasile: Florianôpolis (UFSC), Rio de Janeiro (UERJ), São Paulo (ECA/USP – Instituto de Estudos Avançados IEA/USP)

Tra i suoi libri:

– Stupore Indigeno. Le culture native in Brasile tra rituali iniziatici e sfide digitali, Napoli, Mar dei Sargassi, 2203

– Meta-feticismo. Un’etnografia esplorativa oltre la reificazione, Roma, Manifesto Libri, 2022

– Pigneto. Periferia Centrale, Roma,  Bordeaux, 2022

– Culture eXtremeMutazioni giovanili nel corpo della metropoli, Roma, Derive&Approdi, 2021,

– La città polifonica, Roma, Rogas, 2018

– Antropologia della comunicazione visuale, Milano, Postmedia  Books, 2017

– La Linea di Polvere. La cultura bororo tra tradizione, mutamento e auto-rappresentazione, Meltemi, Milano, 2017

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