Decoloniale

Dove sta il futuro? Qual è il luogo della trasformazione?
“La nostra trasformazione, individuale e collettiva, avviene attraverso la costruzione di uno spazio creativo radicale, capace di affermare e sostenere la nostra soggettività, di assegnarci una posizione nuova da cui poter articolare il nostro senso del mondo.”
(bell hooks, Elogio del margine, Tamu, 2020)
Questa riflessione di bell hooks riassume in poche pungenti parole il senso profondo di cosa possiamo intendere con il concetto di “trasformazione”, in questo tempo contemporaneo così complesso, per diversi “noi”. Vorrei appuntare qui, a partire da questa citazione, alcuni pensieri che mi si presentano in forma di domande. Domande per me assolutamente pressanti e fondative di qualunque progettualità, di qualunque aspirazione alla trasformazione sociale e culturale, individuale e collettiva. A queste domande, non pretendo di consegnare alcuna risposta. La necessità che sento semmai è quella di approfondire le provocazioni che contengono, di articolare le possibilità e le immaginazioni che sollecitano. Il tema è ampio, e questa mia scrittura certamente ne coglie solo alcune sfumature, a partire da un punto di vista specifico, situato, in una forma precaria e fluida che assomiglia più ai pensieri importanti annotati camminando per strada prima che si perdano, più che a un’esaustiva analisi “scientifica”.
Chi è questo “noi”?
Per quanto qualunque trasformazione riguardi in primo luogo, essenzialmente, una presa di coscienza individuale e soggettiva profonda, non è mai possibile operare una trasformazione da soli: trasformare, trasformarsi, vuol dire sempre, anche, alterarsi, cioè fare spazio alla differenza, all’alterità, nostra e altrui. L’identità non è un oggetto, ma un processo, e andrebbe declinata sempre in forma plurale: le identità come incessanti processi di identificazione, che seguono molteplici e complesse traiettorie di appartenenza. Questo “noi”, in qualunque modo lo intendiamo, non può mai essere dato per scontato in nessuna forma: ciascuna e ciascuno di noi non fa altro che elaborare le proprie appartenenze (nazionali, culturali o sottoculturali, di classe, di genere, religiose ecc) in un continuo e creativo lavorìo di traduzione di queste categorie astratte nell’esistenza e nell’agire quotidiano, nella propria esperienza incarnata, in modi singolari e soggettivi.
Il “noi” di bell hooks, quando negli anni ‘90 scrive Elogio del margine, è quello delle comunità afroamericane povere, delle donne soprattutto, storicamente marginalizzate all’interno delle loro comunità e nella società. E noi, a quali “noi” sentiamo di appartenere? Da quale posizione parliamo? Cosa vuol dire parlare di trasformazione dal punto di vista che incarniamo?
Io sono un’accademica e vivo con un certo disagio questa posizione, consapevole che spesso le istituzioni culturali (in particolare quelle in cui si costruisce e si “trasmette” il sapere come la scuola e l’università, o il museo) fanno fatica a far entrare nelle loro stanze ordinate quello che fuori brucia. Nel mio lavoro mi chiedo continuamente cosa vuol dire oggi costruire sapere, chi lo costruisce e per chi, o meglio con chi. Mi chiedo che responsabilità hanno le istituzioni culturali (e io al loro interno) nell’evitare di riprodurre un sapere spesso conservatore e scollegato dai nodi critici della nostra contemporaneità, e invece nell’impegnarsi a produrre un sapere critico e trasformativo in relazione con la complessità del mondo contemporaneo e con le persone alle quali dovrebbe corrispondere la loro vocazione di luoghi “pubblici”.
Cosa vuol dire che un luogo, un’istituzione è “pubblica”? A chi appartiene?
Ai cittadini e alle cittadine che in essa si sentono rappresentati e rappresentate e ripongono delle aspettative. Le istituzioni pubbliche in questo senso sarebbero uno specchio, nel quale la loro comunità di riferimento, la cittadinanza, può riconoscersi. Una cittadinanza immaginata e rappresentata spesso come omogenea (culturalmente, ma anche rispetto alla corporeità e all’identità più in generale). Cosa succede se queste istituzioni continuano a rimandare un’immagine che tuttavia oggi non è più coerente con la realtà?
Tutta la complessità del nostro presente fluido, diasporico, conflittuale, transculturale, spesso non viene registrata né rappresentata nello specchio delle nostre istituzioni. Le persone e le comunità con background culturali complessi, le tante diaspore che abitano, nutrono con il loro lavoro, con le loro competenze e con la loro presenza il territorio in cui viviamo, restano spesso marginalizzate o inferiorizzate nel discorso e nelle pratiche istituzionali (per non parlare della linea del colore invariabilmente “chiara” di chi in queste istituzioni lavora).
Gli assetti normativi e le strutture che organizzano il vivere sociale spesso riproducono una rete intricata di privilegi e discriminazioni, per lo più invisibile a chi gode dei primi e non subisce le seconde. Un modo di pensare, di parlare, di agire intriso di colonialità, che spesso facciamo fatica a riconoscere, tanto la nostra quotidianità ne è intrisa, tanto continua a riprodursi in modi apparentemente innocenti, in abitudini e automatismi diventati norme, canoni, tradizioni, estetiche. Come donna euro-discendente sento anche io, come tante altre, di non riconoscermi in questo specchio. E dunque forse è proprio lo specchio il primo luogo che deve essere trasformato, perché possa assolvere davvero e fino in fondo la sua principale funzione.
Come possiamo mettere in discussione il senso comune, gli stereotipi, i pregiudizi, le norme oppressive e l’universalismo con cui siamo abituate e abituate a leggere il mondo? Forse, interrogandoci sul senso e sugli obiettivi di una trasformazione sociale e culturale profonda, alla quale aspiriamo, non possiamo non partire dal riconoscimento delle forme sempre stratificate e intersezionali in cui si esprimono le identità individuali e collettive; dal chiederci per chi e con chi vogliamo operare questa trasformazione; dal riconoscere che (come scrive bell hooks) dobbiamo re-imparare a guardare.
Dove sta il futuro? Qual è il luogo della trasformazione?
Parlare di trasformazione vuol dire prendere in considerazione il futuro. Ma dove si trova il futuro, come possiamo farlo presente nel nostro discorso e nelle nostre azioni?
Trasformazione non è sinonimo di sviluppo: proviamo a pensare al futuro non come una dimensione di pertinenza dell’economia, o della pianificazione, o della disastrologia, o della statistica. Proviamo a pensare il futuro come “fatto culturale”, cioè come una proiezione (in questo senso possiamo pensarlo come uno spazio) che si articola nell’attribuzione di valore e di significato, nella comunicazione, nel dissenso, nell’elaborazione di idee. Quando sentiamo parlare di “cultura” spesso è in riferimento alla memoria, al passato, a tradizioni e a una storia da conservare e tramandare. Giustissimo, soprattutto in relazione a quegli eventi del passato che non sono affatto passati, ma che continuano (magari in altre forme) a riguardarci, a gettare delle ombre potenti nel nostro presente. Tuttavia, c’è una dimensione fondamentalmente orientata al futuro, all’interno del concetto di cultura, che dialoga costantemente (a volte anche in modi conflittuali) con le tradizioni sedimentate, aprendo al cambiamento. Come suggerisce l’antropologo Arjun Appadurai, il futuro non è una dimensione puramente teorica, o tecnica, o neutra. È uno spazio che prende forma con forza nei mondi locali e specifici che ciascuna e ciascuno di noi costruisce attraverso tre dimensioni principali: l’immaginazione, la previsione e l’aspirazione. Il futuro è uno spazio in cui queste dimensioni, o meglio queste competenze, si esprimono attraverso emozioni e sensazioni contraddittorie, soprattutto per le persone che sono più in difficoltà. Le capacità di immaginare, di elaborare delle previsioni e di avere delle aspirazioni, non sono distribuite in modo equo all’interno della nostra società, soprattutto per le persone e le comunità marginalizzate, invisibilizzate e non riconosciute come parte integrante della cittadinanza. Questo comporta una maggiore difficoltà, per queste persone, nell’esercitare queste competenze e nel concepire la possibilità stessa di una trasformazione.
Come possiamo nutrire queste competenze culturali, perché consentano a molteplici “noi” di concepire la possibilità di trasformare la nostra condizione, o un pezzo del mondo in cui viviamo?
Proprio perché queste competenze, e il futuro stesso, sono dei fatti culturali, il linguaggio è uno dei più importanti laboratori, in cui re-immaginare, sperimentare e costruire azioni trasformative. La capacità di immaginare e di avere delle aspirazioni è innanzitutto la possibilità di disimparare quei saperi che hanno dato forma al mondo come lo conosciamo, e provare a scriverne di nuovi. Di mettere in movimento la storia e il modo (il punto di vista) attraverso il quale viene raccontata, gli immaginari che abbiamo ereditato, il modo in cui si incarnano nei luoghi del nostro quotidiano, nelle relazioni, nel parlare, nelle nostre città e nelle nostre istituzioni.
Dal punto di vista di una istituzione, lavorare in modo critico sulla capacità di immaginare una trasformazione, credo implichi anche interrogarsi rispetto al proprio ruolo pubblico, uscire dalla propria zona di comfort, usare il proprio potere, le proprie risorse, privilegi e competenze per fare spazio, aprire dei varchi, creare connessioni e mediazioni tra i diversi soggetti in gioco – tutte azioni preliminari all’innesco di qualunque trasformazione. In una parola, offrire la propria response-ability: impegnarsi a essere ricettiva e responsabile nel saper dare risposte, il che presuppone essere capace di ascoltare e di guardare, di riconoscere le proprie comunità nella loro complessità e comprendere quali sono i loro bisogni e le loro aspirazioni, che a volte possono essere anche conflittuali. Sapersene prendere cura.
Non si tratta di costruire una società più “inclusiva”, ma più “equa”. Nel discorso dell’inclusione, agisce una sorta di presupposto scontato, e cioè che una minoranza venga passivamente accolta, o fagocitata, in una maggioranza, senza che questo comporti una reciprocità di cambiamento, o una modifica nelle relazioni a livello strutturale. Se parliamo di equità invece, parliamo della necessità di una “politica del riconoscimento”, e cioè di acquisire la consapevolezza che l’eterogeneità, la diversità, la pluralità sono gli elementi che caratterizzano la nostra società, che nonostante questo si costruisce su profonde disuguaglianze. In questo scenario, il riconoscimento e l’ascolto delle istanze delle comunità e delle persone marginalizzate è certamente una prima forma di riscatto, ma deve poi necessariamente portare a una redistribuzione di risorse, spazi, possibilità, accesso, all’abbattimento degli ostacoli che impediscono a molte persone di ottenere ed esercitare i propri diritti di esseri umani e cittadine e cittadini.
I processi di coscientizzazione (individuali, collettivi e istituzionali) richiedono un lungo e lento lavoro che comporta (come scrive la studiosa algerino-palestinese Ariella Aïsha Azulay nel libro Potential History. Unlearning Imperialism) diversi tipi di de-, come decentrare e decodificare; diversi tipi di ri-, come rileggere, riraccontare e reimmaginare; diversi tipi di dis-, come disimparare e disfare.
Per questo credo sia cruciale impegnarci in una “politica della pazienza”, lavorando in modo critico sui linguaggi e attraverso i linguaggi, tramite pratiche artistiche e pedagogiche dentro e fuori gli spazi pubblici, per decentrare e pluralizzare il nostro punto di vista, nutrendo la capacità culturale di avere delle aspirazioni che (scrive Appadurai nel libro Le aspirazioni nutrono la democrazia), come “ogni capacità culturale complessa, sopravvive solo se può essere praticata, utilizzata ripetutamente ed esplorata mediante l’elaborazione di ipotesi o contestazioni”. Una capacità di re-immaginare il futuro, riconoscendo la qualità transculturale del tessuto sociale in cui viviamo, e della nostra stessa identità.
Riferimenti bibliografici utilizzati nel testo:
Arjun Appadurai, Le aspirazioni nutrono la democrazia, 2011
Arjun Appadurai, Il futuro come fatto culturale. Saggi sulla condizione globale, Raffaello Cortina, Milano, 2014.
Ariella Aïsha Azoulay, Potential History. Unlearning Imperialism, Verso, Londra-New York 2019.
bell hooks, Elogio del margine, Tamu, Napoli, 2021.
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