Ecologia

Perché e in che modo l’ecologia, come movimento della pratica e del pensiero, può aiutare persone, istituzioni e comunità ad abbracciare estetiche della complessità?
Ho incontrato l’ecologia da bambina. Ero un giovane animale con l’istinto politico, alcune cose erano inaccettabili come uccidere gli animali. I primi volantini li ho disegnati con le matite colorate insieme ai miei compagni di classe delle elementari. Al tempo dei referendum sulla caccia li distribuivamo dentro la villa comunale e sul corso Garibaldi di Reggio Calabria, nel sud profondo della mia città natale.
Ero piccola, non conoscevo questo termine e non conoscevo la differenza fra l’ambientalismo e l’ecologia, che avrei scoperto plurali. Non sapevo che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita. Non sapevo che quell’istinto politico, quella sete che mi ha sempre mosso irrequieta, sarebbe stata saziata dall’arte. Né che questa sarebbe stata la mia eredità principale verso Art is Open Source, poi HER e il Nuovo Abitare: i tre nodi dell’identità multipolare in cui, negli anni, ci siamo trasformati ed evoluti insieme all’amore della mia vita, partner e simbionte Salvatore Iaconesi – la persona con cui ho immaginato e vissuto tutto fino al 18 luglio 2022.
Dedico a lui questo progetto curatoriale, e a ciò che ci ha unito dando un corpo alla tensione esistenziale che entrambe ci portavamo dentro completandoci, come testimonia questo articolo pubblicato nel 2020. Ciò che sono diventata – ciò che penso, il mio modo di guardare e comprendere il mondo – sono il frutto di sedici anni di gioiosa simbiosi in cui tutto ciò che quella bambina-con-volantino sognava, si è materializzato. E onestamente anche molto di più.
“Perchè non bisogna confondere ecologia e ambientalismo”
Quando ci siamo incontrati con Salvatore Iaconesi nel 2006, avevo le idee più chiare sul mio posizionamento politico/esistenziale. Leggendo Bateson, Maturana, Varela mi dichiaravo apertamente da diversi anni “cyber-ecologista”, con simpatie per le correnti cosiddette deep. L’ecologia profonda, evocata nel ‘73 dall’alpinista filosofo Arne Naess durante la crisi energetica dello Yom Kippur, ha colto un momento. Se me lo chiedessero, è questo l’anno in cui siamo entrati nella contemporaneità che conosciamo oggi, lasciandoci alle spalle gli equilibri di guerra fredda e abbondanza che hanno sorretto la generazione dei baby boomer nella ricostruzione post-bellica: lo standard aureo degli accordi di Bretton Woods collassa, il dollaro non è più convertibile in oro, subentra il sistema dei cambi variabili e i governi varano per la prima volta il cosiddetto regime di “Austerity”.
Il sogno del benessere e delle sorti progressive dell’umanità vacilla. Un’epoca nuova è iniziata, globale e incerta, mentre il protocollo http ci catapulta nell’era dell’iperconnessione, rendendo “la struttura che connette” uno spazio imprevisto da abitare. Chi ci arriva si esprime, fa cose: vecchie e nuove, legali e illegali e spesso distinguere è impossibile.
La mia generazione – figlia di Chernobyl e dei cocci del muro di Berlino – ha visto crollare tutti gli “ismi” del secolo breve e, contemporaneamente, i nostri corpi connettersi alle propaggini di una rete globale emergente e sconosciuta. Invischiati nel problema dalla nascita, non abbiamo vie di fuga: né ideologiche né materiali. L’ecologia aveva visto, comprendeva la forma-network incarnata da Internet e non conteneva “ismi”. Rifiuto dei dualismi oppositivi identitari, mi apriva a nuove consapevolezze: come accettare che esistiamo nella relazione e che ogni conoscenza è situata. “It takes two to know one”: con una manciata di parole Bateson destabilizzava felicemente le mie nozioni pregresse di soggetto/oggetto e dei loro relativi confini. Fino alle “Le Tre Ecologie”. In questo piccolo libro pubblicato nel 1989, Felix Guattari esorta a parlare di “componenti di soggettificazione” indicando il soggetto, e di “terminale di processi” riferendosi all’individuo: termini ancora sorprendenti ai miei occhi per descrivere il sé, che mostravano una forma di conflitto multipolare recombinante come elemento costitutivo di ogni relazione ecologica (mentale, sociale, ambientale.)
Irrequieta, elegante e rotonda, l’ecologia mi appagava. L’ho scelta come l’unico vestito politico che potessi indossare pubblicamente sentendomi a mio agio, senza paura, vergogna, imbarazzi. Un modo bello e interessante di stare al mondo. L’ambientalismo, nelle sue molteplici sfaccettature, si collocava tendenzialmente su un altro piano: la tutela e protezione dell’ambiente volta “a contrastare gli impatti negativi delle attività umane su di esso”. Wikipedia ci dà una mano con questa semplice definizione. L’ambientalismo vive nell’ambito delle soluzioni, dell’utilità, della gestione delle risorse. L’ecologia, in particolare quella di cui mi interesso, studia le relazioni fra gli attori degli ecosistemi e si interroga sulla posizione dell’essere umano contemporaneo in un ambiente che include oggi dati e computazione, smarcandosi da enfasi antropocentriche e rifiutando la separazione natura/cultura. Come ho imparato insieme al mio simbionte, la coscienza ecologica che amo non si sottrae alla tragedia del nostro abitare ma la attraversa e, se possibile, accoglie l’agnizione.
Per un’estetica della complessità:
togliere la mano dal fuoco
Ciò che ho capito col tempo dell’ecologia è che prima di tutto è una sensibilità: parola felice e ampia che negli anni avrebbe assunto per me connotazioni e sfumature sempre meno sentimentali e più connesse all’estetica, alla neuroscienza, alle teorie della percezione.
Senseable, abili nel sentire.
Dal mio primo impeto animalista, ho capito che non mi sarei occupata di panda. Sul pianeta c’erano nuove ecologie alimentate dall’elettricità, nuove specie computazionali fatte di algoritmi, cavi e ferraglia popolavano il mondo. Innumerevoli intelligenze artificiali erano in mezzo a noi, entità ancora astratte e lontane da me, oscure a volte, ma parte dell’ambiente con i loro corpi alieni, misteriosi e capaci di interagire nei modi più disparati. E poi c’era il software, il codice che con le sue sequenze di 0 e 1 si manifestava come il linguaggio più performativo mai esistito (e tante volte discusso insieme a Salvatore Iaconesi e al compianto Antonio Caronia). Siamo tutti cyborg, sussurravano nell’orecchio Donna Haraway e tanti altri. Il vento era forte e seducente: la mia ecologia desiderava essere cibernetica e informata dal web, la struttura-che-connette ormai tradotta in una dimensione fisica, tecnologica, osservabile, manifesta – e dunque impossibile da ignorare.
L’incontro con Salvatore Iaconesi ha significato immergersi completamente in questa dimensione da un punto di vista dirompente: grazie all’arte, la performance, il punk, l’hacking – e tutte le forme espressive nate dal codice e dalla rete – abitavamo quei luoghi da esploratori. E questo ha cambiato tutto, portando al centro di ogni azione l’immaginario e la trasgressione: non in quanto rottura ma attitudine ad esplorare i confini dell’esistente per “spostare l’asticella del possibile”, come diceva Salvatore Iaconesi difendendo da sempre la necessità di uno spazio per trasgredire in ogni sistema. E, come abbiamo riconosciuto successivamente, di non soccombere a ciò che Mark Fisher, morto suicida, descrive come realismo capitalista. Ho compreso, in sintesi, che per agire politicamente in un contesto in cui linguaggio e scrittura erano cambiati (dal libro stampato all’ipertesto di Internet), c’era bisogno di quella modalità della conoscenza tipica dell’arte che è l’esperienza. Uno spazio pre-linguistico in cui sentire ed esplorare la nostra condizione cyborg, ancor prima di schierarsi. Volantini, cortei, manifestazioni, interrogazioni parlamentari, prendevano improvvisamente la forma di installazioni, performance, oggetti di arte e design capaci di interrogare o materializzare nuovi media, sistemi legali, economici, sociali, e con essi ecologie cyber-diverse in cui interagire ed esprimersi (come la nostra famiglia non biologica tecno-queer: l’atto con cui siamo nati come coppia e come duo allevando Angel_F, un’intelligenza artificiale bambina con un albero genealogico incredibilmente esteso e complesso). È stato un processo incredibile lungo sedici anni.
L’ecologia che racconto – e che tiene insieme questo lavoro di curatela – è una tensione esistenziale irriducibile dell’abitare, come sempre mi ricordava Fiorello Cortiana: l’ecologista da cui ho imparato di più. Una postura, una sensibilità e un’estetica protesi verso la complessità. Ciò significa riconoscere che l’essere umano non è un centro ma il nodo di una rete di relazioni dinamiche in continua co-evoluzione con l’ambiente, i media, gli altri sé e le tecnologie che lo modificano.
Indossare l’ecologia è, dal mio punto di vista, la speranza di praticare stili di vita sorprendenti frutto di nuove sensibilità, proprio come lo è stato il punk. Indossare come snodo: dal sapere al sentire all’irradiare (cit. Salvatore Iaconesi in Comunicazione Ecosistemica). Possiamo essere informati sul cambiamento climatico e non modificarci in nulla. Sentire il cambiamento climatico è ciò che fa togliere la mano dal fuoco quando stiamo bruciando. Sviluppare nuove senso-abilità (per esempio ai fenomeni complessi) è una questione ecologica contemporanea che chiama artisti, ricercatori, scienziati e società a immaginare. È quello di cui ci occuperemo.
Condividi
Altro da Ecologia